Se Lou Reed ha sempre rappresentato il volto genuinamente punk ed eversivo dei Velvet Underground, al contrario John Cale ne è stato il contraltare raffinato ed intellettuale. Gallese, studente di musica al Goldsmiths College di Londra e successivamente emigrato a New York per diventare allievo di John Cage, le sue prime esperienze sono avvenute all’insegna della musica colta d’avanguardia, del minimalismo in particolare; fondamentali le collaborazioni con La Monte Young e Tony Conrad, che gli permisero di sviluppare il suo stile ipnotico con la viola, strumento che risultò perfetto nell’accentuare la psichedelia malata presente nei primi due dischi dei Velvet. Lasciati questi, Cale approda alla dimensione solistica convinto di poter fondere il rock col romanticismo mitteleuropeo della musica classica di fine ottocento, senza precludersi neppure fughe in avanti all’insegna della sperimentazione pura. Non sempre ci riesce, ma fra tanti tentativi sbocciano alcuni capolavori. “Paris 1919“, il suo disco più languido, è uno di questi: la compenetrazione fra folk rock, pop orchestrale, vellutati arrangiamenti d’archi e reminiscenze di motivi rinascimentali è totale, le atmosfere sospese fra inizio novecento, medioevo e contemporaneità sono un sogno ad occhi aperti. Un ‘dandismo’ ammantato di ricerca che potrebbe somigliare, per certi versi, a quello di Brian Eno, ma che conserva tratti assolutamente caratteristici di un grande della musica del Novecento.
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