Rispetto a “Head“, “Goat” è più rifinito nella produzione e nell’esecuzione, confermando i Jesus Lizard quali virtuosi assoluti del noise rock; allo stesso tempo l’aggressione sonora aumenta d’intensità e tocca vertici d’incandescenza mai visti prima. L’attacco di “Then Comes Dudley” è minaccioso quanto basta nella sua fusione di hard, funk e blues dilaniati successivamente dalle cadenze sussultorie della batteria e dal canto smembrato di David Yow; il riff ostinato di “Mouth Breather” si accompagna a quello successivo di “Nub”, simile al frastuono di una motosega e sublimato da un assolo altrettanto fragoroso; l’angoscia mortale di “Seasick” viene scandita da un battito malignamente psichedelico; nel baccanale di “Monkey Trick” emergono figure notturne e affilate, in una sorta di versione jazz dei Big Black: sono solo alcuni dei momenti memorabili di un lavoro che farà la storia dell’intero sottogenere a cui appartiene. Il capolavoro è però “Lady Shoes“, momento in cui tutta la tensione psicosessuale del quartetto si libera definitivamente: propulso da un micidiale riff da rodeo reiterato incessantemente, il brano cresce d’intensità tramite le esplosioni di basso e batteria e le urla strozzate e sconnesse di Yow che recita un testo di pura parafilia, prima che tutto venga interrotto bruscamente, con una cesura simile a un colpo d’accetta. I Jesus Lizard pubblicheranno ancora due ottimi album, prima di calare inesorabilmente con un paio di LP mediocri che ne anticiperanno lo scioglimento. All’interno della loro discografia “Goat” rimane inarrivabile.
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