Siamo ormai alla vigilia della pubblicazione di “The Getaway“, il nuovo album dei Red Hot Chili Peppers, in uscita venerdì 17 giugno 2016. Sono sempre stata una tipa molto malinconica e nostalgica. E così, nonostante ad oggi non esista nulla di più lontano dai miei attuali gusti musicali dei Red Hot, ho deciso di crogiolarmi nei ricordi di un’epoca della mia esistenza in cui il quartetto californiano era qualcosa come la mia unica ragione di vita, mettendomi di buonumore e facendomi dimenticare gli scazzi e il disagio tipico dell’adolescenza (almeno, parlo della mia). Sì, perché la me quattordicenne si alzava la mattina e ascoltava “Californication” a ripetizione, andava a scuola e si scriveva i testi delle canzoni sulla Smemo, poi tornava a casa si stampava le foto di Anthony Kiedis e le incollava su quello che ora mi piace definire il “quaderno dell’ormone impazzito”.
Per fortuna con il passare del tempo la cosa è andata scemando, ma ogni volta che i Red Hot annunciano l’uscita di un nuovo disco, si risveglia in me qualcosa di molto simile a quello che provavo allora. Ed eccomi qui, 17 anni dopo (quanto sono vecchia), a buttare giù una playlist che non vuole essere assolutamente esaustiva, ma che racconta i “miei” RHCP, il modo in cui li ho vissuti, e i pezzi che mi rimarranno per sempre sottopelle.
Ho scelto un brano a disco (ok, ho barato per “Stadium Arcadium”, ma in fondo è un disco doppio, e ho volutamente evitato EP e B-sides per non impazzire del tutto) dagli esordi fino a “I’m With You” (2011), mentre la fregola per “The Getaway” sale ogni giorno di più. Ovviamente alcuni dei pezzi che ho selezionato non sono né i più gettonati né i meglio riusciti, ma che gusto ci sarebbe stato altrimenti?
Out in L.A. – Red Hot Chili Peppers, 1984
Il primo disco dei Red Hot è stato anche il più difficile da digerire per la sottoscritta. Mi stavo riprendendo a fatica dalla cotta per “Californication”, che non ha proprio nulla da spartire con le sonorità funk e grezze di “Red Hot Chili Peppers”. Mi viene spontaneo scegliere “Out in L.A.”, il pezzo che ha fatto conoscere Flea e soci in giro per i locali malfamati della loro Los Angeles, quando suonavano strafatti indossando il famigerato calzino dove non batte il sole.
American Ghost Dance – Freaky Styley, 1985
“Freaky Styley” è il lavoro più sottovalutato della discografia dei Nostri. L’apporto del guru del funk George Clinton si fa sentire dietro ogni singola nota, tirando fuori dal cilindro un album viscerale e ballabile fino allo sfinimento. Il basso di “American Ghost Dance” è una goduria indicibile, e ve lo dice una che di funk non ne capisce un cazzo.
Love Trilogy – The Uplift Mofo Party Plan, 1987
Finalmente i RHCP iniziano a fare sul serio, e oltre a dedicare un album alla parte del corpo per loro più importante (per chi non avesse capito, quella pudicamente nascosta dal calzino), iniziano a buttar fuori qualche singolo di discreto successo e la loro anima prettamente melodica. A me però fa andare via di testa questa “Love Trilogy”, che in un crescendo ritmico pazzesco, che va dal reggae all’hardcore, illustra le grandi passioni di Kiedis. Vai Antwan, e schiacciale tutte.
Knock Me Down – Mother’s Milk, 1989
Nel 1989 i Nostri erano pronti per il grande salto. Archiviati alla velocità della luce (e provvisoriamente) i problemi di droga e la morte per overdose del chitarrista Hillel Slovak, la band se ne esce con una manciata di pezzi destinati a lasciare il segno. “Knock Me Down” è uno di questi, e oltre ad essere dedicato alla memoria dello scomparso amico e compagno di avventure, racchiude in sé i germi di quello in cui si trasformeranno i Red Hot di lì a qualche anno, grazie anche all’apporto creativo di John Frusciante. Poi c’è quella frase, “It’s so lonely when you don’t even know yourself”. È da anni che cerco di farci i conti.
I Could Have Lied – Blood Sugar Sex Magik, 1991
Se escludiamo “Under the Bridge”, è la canzone più atipica del disco. Del funk degli altri pezzi non c’è neanche il retrogusto, ma l’impotenza e la disperazione che traspare dalle lyrics per la fine di una storia praticamente mai nata (per la cronaca, quella tra il frontman e Sinead O’Connor) è sublime. E quel “fucked up” finale è il simbolo della resa incondizionata e definitiva del protagonista.
Tearjerker – One Hot Minute, 1995
Mi piacciono le canzoni strappalacrime. Tutte le volte che ascolto “Tearjerker” inizio a sfrigolare nella malinconia, mi lascio cullare dagli arpeggi di Dave Navarro, e immagino cosa deve essere stato l’incontro in un non meglio definito backstage tra Kiedis e Kurt Cobain, il protagonista della canzone, dipinto come un’entità astratta, né uomo né donna, fatto solo d’arte e di emozioni.
Otherside – Californication, 1999
Il pezzo della rivelazione, un fulmine a ciel sereno. Mentre una povera adolescente cazzeggiava davanti a MTV, passano a tradimento questo video, turbandola e incuriosendola fino all’ossessione. Chissà perché poi, ancora adesso mi chiedo come mai i singoli precedenti (“Scar Tissue” e “Around the World”) non abbiano risvegliato la bestia, ma penso che sia dovuto al fatto che fossero troppo allegri, a modo loro. “Otherside” invece, nel mal di vivere del protagonista della canzone e del clip, cela in sé un’inquietudine che mi rispecchia alla perfezione.
Throw Away Your Television – By the Way, 2002
Quando è uscito “By the Way” ero in pieno delirio. Riascoltandolo oggi non riesco a capirne il motivo, se non la fede incondizionata e la giovane età, ma nonostante contenga “Cabron”, ovvero una delle canzoni più orrende della storia dei Red Hot, qualche pezzo sporadico qua e là si salva. Tipo “Throw Away Your Television”, in netto contrasto con lo strazio strappamutande e i ritornelli nonsense delle altre tracce, e una vera bomba dal vivo.
https://www.youtube.com/watch?v=xLkD7V07f_E
Torture me – Stadium Arcadium (Jupiter), 2006
Il basso di Flea a pieno regime, le urla di Kiedis, la parentesi quasi beatlesiana per poi ripartire più veloci che mai, fanno di questo pezzo una piccola perla. Consigliato a tutti quelli che sanno cosa si prova ad essere costantemente “felici di essere tristi”.
21st Century – Stadium Arcadium (Mars), 2006
Beh, è il pezzo più legato alle origini dei 28 che compongono “Stadium Arcadium” insieme a “Hump the Bump”, che però secondo me fa davvero schifo. “21st Century” riesce meglio nell’intento di far ballare con intelligenza, con lyrics accattivanti e il solito giro di basso che non te lo togli dalla testa manco a picchiarla contro il muro prendendo la rincorsa.
Dance, Dance, Dance – I’m With You, 2011
Questo brano mi è arrivato dritto come uno treno merci solo la prima volta che l’ho sentito dal vivo. Un pezzo mediocre, che su disco non ha quasi nulla da dire, trova la sua vera ragione d’essere se suonato live. È “The holiness of play”, quella sensazione indescrivibile che solo la musica sa regalare, toccando delle corde che neanche sapevamo di avere, trascendendo dallo spazio e dal tempo in cui ci si trova.
Chiara Borloni