Kurt Cobain e Layne Staley: “Some Die Just To Live”

Fin da bambina, la data del cinque aprile è sempre stata significativa. Ricorreva – e ricorre, benché percorsi e scelte ci abbiano separate da tempo – il compleanno della mia migliore amica dell’epoca. Un periodo di lunga durata. Oltre ad abitare a due portoni di distanza, con Lucia ho condiviso le tappe fondamentali dall’asilo ai primi tre anni di liceo. La strada da casa a scuola, l’emozione del “primo giorno”, recite, compiti in classe, ore al telefono, vacanze al mare, passeggiate in centro di sabato pomeriggio, feste d’istituto. E tanti, tantissimi compleanni. Del 5 aprile 1994, per motivi anagrafici, non ho ricordi precisi. In uno degli album di foto custodito nei cassetti in salotto, però, ci sono le immagini di quel giorno. Dalla stampa dei rullini che i nostri genitori si procuravano premurosamente per l’occasione, appare una torta con tre candeline. La festeggiata al centro, io, più grande di un paio di mesi, sono alla sua sinistra, in ginocchio come lei su una sedia, il solito “cheeeese” e una mano a stringere il bordo del tavolo.

Il 5 aprile 2002, in quinta elementare, facevamo già le liste degli invitati, i biglietti colorati con luogo e ora dell’evento, organizzavamo giochi, pensavamo alla maglia più bella da riservare per il grande giorno, aspettavamo insieme l’arrivo di tutti i partecipanti. L’ultimo traguardo che condividemmo furono i diciassette anni. Quella festa annoverava un’ospite speciale, non facile da gestire: l’adolescenza. Una rivoluzione tanto annunciata quanto febbrile, durante il cui corso la mia indole idealista iniziò a forgiarsi del fuoco di mille battaglie. Laura, la ragazzina paffuta, secchiona, solitamente in disparte o in compagnia dei soliti volti meno “di tendenza”, nel tempo, era stata protagonista di quel “cambio d’abito” che, pur non trasformando l’anatroccolo in un cigno, sicuramente aveva dato una bella lucidata alle ali. Il capitolo dei primi amori, dei primi litigi, delle prime invidie, rivendicazioni, rivincite. Un unico personalissimo libro di incognite che, tuttora, contiene la fusione di scienze matematiche e dottrine psicanalitiche e che, probabilmente da quei tempi, ho intitolato “La grande X delle relazioni umane”.

La fine dell’amicizia con Lucia ha coinciso con l’epilogo dell’innocenza pre-adolescenziale e con l’inizio di un altro profondo, imperituro sodalizio. Più mi sentivo lontana e diversa da tutto ciò che avevo intorno, più premevo sulle cuffie, per farle aderire meglio alle orecchie. Quelle cuffie amplificavano il suono crudo, distorto, sfrontato, sofferto, sporco, autentico, vissuto a Seattle e dintorni, all’alba degli anni Novanta.

Dopo aver rifiutato il contatto con qualsiasi aiuto o essere umano – compresi quelli più vicini, cari, familiari – con qualsiasi scintilla che provenisse da libri, canzone, arte… Dopo aver rifiutato qualsiasi contatto persino con me stessa perché ormai troppo impegnata a mettermi in discussione e a desiderare di diventare invisibile, i brani di band come Mother Love Bone, Pearl Jam, Soundgarden, Nirvana, Alice in Chains e Mad Season sembravano l’unica formula magica, enunciata poco meno di due decenni prima, in grado di risvegliarmi dalla notte del mondo. Nascosta sotto coperte infeltrite e mai troppo calde, voltandomi sul lato destro, avevo abbracciato i versi di Eddie Vedder che, disteso sul letto come me, ripeteva “I’m Open”. Ero scesa a duri, durissimi compromessi con le mie imperfezioni. Ma ce l’avevo fatta, mi ero salvata. Sul fianco sinistro, però, ho sempre stretto le braccia attorno al cuscino spinoso di altre due voci.

La prima si arrampicava su un cartello con la scritta Aberdeen. Era l’imprinting roco, rabbioso, graffiato di un ragazzo dalle fattezze angeliche, occhi di cristallo, spesso coperti dai capelli dorati. Kurt Cobain riempiva le pagine di diario degli ultimi anni di liceo, inneggiava e mi invitata a bussare alle porte delle altrui esistenze non dovendo essere qualcuno, ma potendo essere semplicemente me stessa. Nel più attuale presente quelle quattro parole – “Come As You Are” – racchiudono l’ermetica immagine di una spalla che accoglie nel suo incavo una testa stanca, spettinata di pensieri, che si appoggia, si sente al sicuro. Era la versione scomposta e disordinata di “Sliver” a farmi quasi staccare il collo quando la mia camera diventava il parterre infuocato del Reading, contrastando la perplessità di mio padre e mia madre – completamente lontani ed estranei a tale universo musicale – con la risposta: <<Io sono la figlia non riconosciuta di Kurt Cobain>>. Ho sollevato muraglie sulle note di “Stay Away”, annusato l’odore della menta di “Pennyroyal Tea”, ho guardato a ripetizione il video di “Smells Like Teen Spirit”, respirandone la polvere.

L’altra voce riecheggiava dal profilo nervoso ed energico di un indigeno di Seattle che scuoteva il palco a colpi di dread. Aveva scosso anche me, sollevando fra le righe di una formula ipotetica, uno dei quesiti più audaci e disarmanti:”If I would, could you?”. Il timbro di Layne Staley è il canto delle sirene che si è disposti ad ascoltare quando il mare emotivo è davvero in tempesta. È l’eco inconfondibile, violento, acuto dell’inquietudine che diventa arte, nella più miracolosa delle metamorfosi. Il fiume di “River Of Deceit”, a carattere torrenziale, nella sua veemenza autodistruttiva ma plasmante. È la montagna scarnificata di “Them Bones”, ossa senza più un’anima, cumuli fosfatici di calcio senza più linfa. È il guscio sordo di “Nutshell”, estremo grido di dolore – “If I can’t be my own, I’d feel better dead” – di chi si sente violato nella propria essenza, nel diritto di essere incompleto, mancante dell’altra metà della noce.

Un canto di disperazione che si unisce all’urlo di Cobain in “You Know You’re Right”, pubblicato come manifesto postumo, corrente ad alta tensione che colpisce come una scossa chi, ancora oggi, si interroga sui perché di due tragici destini. Qualcuno sostiene che nelle esibizioni di Nirvana e Alice In Chains durante i rispettivi MTV Unplugged (1993/1996) ci fossero già i presagi di funerali annunciati. Raccoglimenti, fiori, candele, ombre, sguardi lontani, talvolta del tutto assenti. Di contro, in quei due live, ho sempre rintracciato il cuore della questione, nel senso più letterale del termine. Su quegli sgabelli, siedono due esseri umani vestiti della più fragile sensibilità. In mano, oltre ad una chitarra e un microfono, hanno un dono: riescono a parlare di se stessi diventando i rappresentati di una situazione generale. È la prerogativa dei “grandi”, dei “parafulmini delle attenzioni collettive”, come diceva Brecht.

Un percorso che calcola, come passaggio obbligato, la tappa della sofferenza. È inevitabile tracciare i contorni dei propri demoni, disegnare la mappa dei propri abissi per essere, poi, la bussola di coloro che elevano a punti di riferimento. Un onore ed un onere che hanno pesato sulle spalle di chi non avrebbe immaginato di essere Atlante. Era questo il prezzo da pagare per custodire una merce rara chiamata empatia? Quel sentimento così raffinato e ambivalente che trascina alla massima esposizione delle emozioni nel tentativo di riempire il più intimo dei burroni? Sentire tanto, sentire troppo. Anche troppo. Tendere le corde al mondo con il pericolo che le sue leggi contorte e distorte le lacerino, in fili deboli. Trame di un tessuto da ricucire, ogni volta. Crepe da rimettere insieme con l’aiuto di un collante identitario. A me, a noi, è concesso, è stato concesso, grazie alla musica che hanno composto e lasciato come eterna eredità.

Non è bastato quel collante per ricomporre le fratture dell’anima di Kurt Cobain e Layne Staley. A renderlo più fluido, più permeabile è stata l’osmosi con la cellula impazzita del grunge. Sono state le molecole tossiche della dipendenza. È stato il calore delle gelide luci dei riflettori, così vicini ma così lontani nell’abbandonarli per giorni, dopo la drammatica scelta a sette anni di distanza l’una dall’altra. Due perdite incolmabili, un’unica data. Un crollo che, a partire dal 1994, sanciva soltanto l’inizio della disillusione. Un senso di vertigine che, forse, avevo già percepito aggrappandomi così forte al tavolino della festa, nella foto di ventisei anni fa.

Laura Faccenda